La natura come pura evocazione in 'Se non avessi visto'.
di Maurizio G. De Bonis
Il tentativo di rappresentare visivamente la natura esaltando la sua presunta bellezza e la sua supposta armonia si configura come una pratica priva di qualsiasi sostanza creativa, operazione sterile e vacua basata su concetti di tipo sovrastrutturale che nulla hanno a che fare con la sua essenza reale. Di fronte a queste elaborazioni “culturali” la natura si pone, infatti, come materia neutra, gelida, autonoma e distante. I meccanismi che la riguardano non sono in alcun modo legati all’azione antropica, anche quando quest’ultima è messa in atto per distruggerla. Il comportamento malefico del genere umano che scaturisce da un disperato, quanto scomposto, tentativo di controllare in maniera assoluta l’esistente non fa che amplificare all’ennesima potenza l’indifferenza della natura, la quale, oltretutto, agisce su un piano temporale infinitamente più dilatato rispetto a quello asfittico e nevrotico dell’umanità.
Quali sono, dunque, le problematiche che deve affrontare un artista visivo quando diviene punto di vista sul mondo, edificando in questo modo l’idea di paesaggio? Che tipo di impostazione creativa può permettere al fotografo o al cineasta di lavorare sul tema della natura senza cadere nel baratro del prevedibile, o peggio, del sovrastrutturale? Le riflessioni che scaturiscono da queste domande sono molte, ma quella che più di ogni altra appare fondamentale è la seguente: è necessario cercare di abbandonarsi all’estetica (cioè al sentimento che si genera nell’esperienza della percezione) del mondo naturale senza cadere nella trappola semplificatoria dell’estetizzante, senza compiacimenti compositivi ed evitando una scontata costruzione dell’inquadratura, fattore quest’ultimo che finirebbe per trasformare l’enigma fortunatamente irrisolvibile del non senso della natura in immagine confortante e decifrabile.
A tal proposito, il lavoro di Luca Cappellaro e Antonella D’Onorio De Meo intitolato Se non avessi visto si manifesta come una salutare eversione nei riguardi di una banale concezione della relazione sguardo/fotografia/natura che, in genere, si limita a essere il risultato di una meccanica illustrazione della struttura superficiale dell’elemento naturalistico, tutto solo per soddisfare il piacere onanistico e borghese provocato dall’atto del vedere. I motivi che hanno fatto scaturire questa sovversione creativa sono molteplici. In primo luogo, è centrale il percorso produttivo che ha generato il progetto.
Le immagini sono state scattate da Luca Cappellaro, con la sua consueta acuta sensibilità, e sono state sottoposte a un lungo processo di sedimentazione, che ha lambito il benefico buco nero dell’oblio, per essere poi riportate alla luce dall’abilità (non di tipo tecnicistico ma di tipo intellettuale) di stampatrice di Antonella D’Onorio De Meo. Quest’ultima, dopo un viaggio interiore nelle visioni di Luca Cappellaro, ha effettuato una precisa scelta di immagini e ha messo in pratica una modalità di stampa definita “lith”. Questo procedimento implica uno sviluppo estremamente lento che determina un’emersione dell’immagine che si palesa, in conclusione, come l’epifania, fuori dal tempo e oltre l’idea di rappresentazione della realtà, di un sentimento estetico che nulla ha a che vedere con la fotografia intesa come ovvia clonazione del visibile. Per tale motivo, in Se non avessi visto, si rivela la natura stessa della fotografia, intesa non come clonazione del mondo ma come affioramento della memoria all’interno di un processo che è possibile definire: “attualizzazione del passato”.
Il risultato finale di questo percorso duale è stato, dunque, sorprendente. L’elaborazione in fase di stampa ha restituito allo sguardo del fruitore non la nettezza superficiale di molta fotografia contemporanea trendy ma la stratificazione di una percezione soggettiva (quella arguta di Luca Cappellaro) che appare come architettura di un impulso di tipo poetico. Il fatto che Se non avessi visto si sia stato generato da questo passaggio da sensibilità a sensibilità, da percezione diretta a epifania atemporale e astorica, da soggetto a soggetto, costituisce uno dei cardini di questo lavoro che si mostra come emblema di profondità e complessità fuori da ogni logica contingente. Le inquadrature non convenzionali concepite da Luca Cappellaro, che spesso nascondono l’orizzonte o lo trasformano in una striscia sottile senza respiro, si articolano visivamente nell’ambito di un bianco e nero, generato dalla tecnica di stampa adottata da Antonella D’Onorio De Meo, che conferisce alle immagini una sublime incertezza, un’evidente indeterminatezza, che le avvicina al sogno.
La sostanza onirica delle opere di Se non avessi visto deriva, quindi, da un’incredibile correlazione di impulsi interiori individuali che si coniugano miracolosamente e oltrepassano i confini della disciplina fotografica per attestarsi nella dimensione di una riflessione poetico-filosofica condivisa. I sentieri senza direzione, i boschi, gli alberi, l’intreccio di elementi naturalistici e le improvvise aperture che rivelano la dimensione del mito comunicano una concezione della natura situata fuori dalla gabbia della rappresentazione. Il paesaggio si tramuta in pura evocazione, in allusione a qualcosa di non visibile che, di fatto, esclude l’ossessivo e nevrotico legame con i segni della realtà. Così, l’immagine ambientale che nasce dalla proiezione del punto di vista del fotografo (in grado di determinare la creazione del paesaggio) diviene la forma compositiva dell’esplorazione dei rispettivi territori interiori dei due autori, i quali non designano l’ambiente ripreso ma al contrario sono designati dalle visioni che hanno fatto emergere grazie alla loro sensibilità.
Il titolo del lavoro, Se non avessi visto, nasce dall’atto di estrapolazione da una poesia dell’autrice americana Emily Dickinson che in una breve lirica mette in relazione la “visione del sole” con la sofferenza provocata dalla “sopportazione dell’ombra”. La luce però, scrive nei versi conclusivi Emily Dickinson, “ha reso il mio deserto ancora più selvaggio”. Ebbene, proprio quest’ultimo passaggio sembra aderire perfettamente al lavoro di Luca Cappellaro e Antonella D’Onorio De Meo ed è stata, in tal senso, assolutamente appropriata l’idea di escludere queste parole dal titolo, scelta che ha evitato il pericolo dell’effetto didascalico banalizzante.
La natura, in questo progetto, simboleggia in maniera inequivocabile una mancanza, il desiderio generato dall’assenza, la paura dell’incomprensibile verso cui inesorabilmente si tende. Il “deserto selvaggio” dell’animo angosciato di Emily Dickinson diventa nei lavori della coppia Cappellaro – D’Onorio De Meo, in definitiva, sistema di archetipi che si situa nell’area dell’immaginario mitologico collettivo, più che nella dimensione dell’angoscia soggettiva; si palesa come sospensione del significato, mistero del visibile, dunque, come abisso imperscrutabile. E tale interpretazione visuale del testo della poetessa americana si configura come un impensabile, ma possibile, punto di contatto tra il significante poetico, la parola e la visione fotografica.